DIAMANTI e TAGLIATORI: TARTUFI e LAGOTTI
Il Diamante
Il diamante è una delle forme in cui può presentarsi naturalmente il Carbonio, è l’elemento con il maggior grado di purezza esistente e la sua struttura molecolare lo rende anche il più duro in assoluto. Sgrossare, intagliare e perfezionare le forme di tale pietra per estrarne la raffinata brillantezza del gioiello è materia di un’élite di artisti detti tagliatori.
Questi si servono, per la particolarissima natura del loro lavoro, di strumenti estremamente specifici come supporti con regolazioni millimetriche o lame ricoperte da polvere di diamante stesso (per via della durezza) che gli consentono un risultato preciso e calcolato.
Nel complesso l’opera del tagliatore va a definire il taglio, ossia la forma, la disposizione e le proporzioni delle faccette che caratterizzano il gioiello.
Il taglio è l’unica caratteristica artificiale della pietra ma è una di quelle che più incide sul suo pregio poiché l’abilità e la raffinatezza del tagliatore possono valorizzare enormemente le qualità naturali o conferire al gioiello qualcosa di unico rispetto ad oggetti
simili.
Senza l’opera del tagliatore un diamante non sarebbe altro che un gran bel sasso, molto duro il quale mai assurgerebbe a non plus ultra delle gemme non venendo estratte ed evidenziate le sue inequivocabili qualità.
Siccome noi qui ci interessiamo di cani ci si può domandare cosa c’entrino i diamanti, beh direttamente, devo ammetterlo, niente; però, indirettamente, le caratteristiche del gioiello e il lavoro del relativo specialista costituiscono una similitudine perfetta per analizzare la razza Lagotto Romagnolo e il suo ambito di applicazione: la cerca del tartufo.
Va da sé che il diamante è rappresentato dal tartufo e che l’artista estremamente specializzato, il tagliatore, sia il Lagotto.
Così come è dalle caratteristiche del diamante che nasce la figura del tagliatore, allo stesso modo bisogna partire dal tartufo per comprendere il cane.
Il Tartufo
A mio avviso tre sono gli elementi salienti: E’ un fungo ipogeo, appartiene alla divisione degli Ascomiceti ed è un simbionte mutualistico. “Ipogeo” significa che compie l’intero ciclo vitale nel sottosuolo. La divisione degli Ascomiceti comprende invece quegli organismi che stoccano le spore in grosse cellule a forma di sacca denominate “aschi”.
Già solo dalla combinazione di questi due elementi emerge un aspetto fondamentale: il fungo per diffondere le proprie spore, vivendo come detto sottoterra, non può servirsi del vento e deve quindi appoggiarsi ad un tramite attivo che lo estragga e lo trasporti: un animale. Come si attira un animale verso qualcosa di nascosto? Con l’odore, un profumo che lo invogli a nutrirsi e così facendo a scavare, trasportare, frantumare il corpo fruttifero
spargendone le spore e depositarne altre tramite le feci.
L’ultimo dei tre elementi, la simbiosi mutualista, è quello stretto rapporto tra specie diverse in cui entrambe le parti traggono vantaggio. I funghi non possiedono clorofilla e pertanto sono inadatti ad effettuare la fotosintesi, devono così associarsi ad altri organismi da cui assorbire parte dei nutrienti. Per il tartufo le piante più utilizzate come simbionti sono: Tiglio, Nocciolo, Salice Bianco, Farnia, Cerro, Rovere, Roverella, Pioppo Nero e Bianco, Pioppo Carolina e Quercia.
La simbiosi avviene a livello radicale della pianta attraverso dei minuscoli filamenti del fungo dette ife che si legano ai peli radicali insinuandovisi negli apici. La struttura che via via si forma, si arricchisce di tubuli e si consolida prende il nome di micorizza. Questa è la sede effettiva della simbiosi in cui avvengono gli scambi: il fungo ottiene parte dei nutrienti della pianta e sviluppa altre ife che si diramano nel terreno aumentando sensibilmente la
superficie di assorbimento della pianta stessa (essendo collegate ad essa attraverso le micorizze).
Man mano che il rapporto si stabilizza le ife si moltiplicano e si espandono formando una fitta rete detta micelio che costituisce l’apparato vegetativo del fungo (per intenderci il corpo del fungo, come l’albero per la pianta). Tale apparato si sviluppa in maniera altalenante a seconda delle condizioni di umidità, temperatura, riserva idrica del terreno ma anche in base a quando la pianta simbionte effettua la fotosintesi, pertanto si ritiene che il periodo di maggior attività sia la primavera/estate.
Con l’avvicinarsi dell’autunno le ore di luce diminuiscono, con esse la fotosintesi, e così anche i nutrienti derivanti dalla pianta. Il fungo riduce allora il proprio sviluppo vegetativo e, raggiunte le condizioni ambientali ottimali, dà avvio alla fase fruttifera, quella cioè in cui dal micelio si dipartono interi filamenti di ife che andranno a costituire il corpo contenete le spore: il tartufo. Formato da una parte interna in cui sono contenuti gli aschi chiamata gleba e uno strato esterno detto peridio.
Secondo alcune teorie il tartufo impiega dai due ai tre mesi per maturare, pertanto piogge abbondanti nei mesi di giugno, luglio e agosto produrrebbero tartufi rispettivamente in settembre, ottobre e novembre (Dati riferiti al Tartufo Bianco, la varietà più pregiata e
ricercata. La mia passione per il tartufo di Marco Latini; Il sogno di un tartufaio di Angelo Rinaldi).
Appreso come il tartufo non sia che il corpo fruttifero del fungo appare logico immaginarlo come la mela rispetto all’albero; questo significa che una volta estratto non si è asportato l’intero organismo, che quindi rimarrà legato a quella specifica pianta producendo altri frutti l’anno successivo.
Questo porta a due conseguenze: primo è necessario richiudere sempre con cura il buco/foro per cercare di lasciare il più intatto possibile il micelio e favorire una nuova e più proficua produzione; e secondo i posti in cui il tartufaio trova il tartufo sono denominati
poste o pasture e costituiscono il suo bene più prezioso che difficilmente condividerà con altri.
Si dice che il peggior animale che un tartufaio possa incontrare nelle sue avventure sia… un altro tartufaio.
La struttura principale è identica per tutte le varietà di tartufo, questo cambia in relazione all’organismo fungo da cui deriva, ecco i principali con i relativi periodi di raccolta:
- Tartufo Bianco Pregiato – Tuber Magnum Pico- 10 Settembre/ 31 Dicembre
- Tartufo Nero Pregiato – Tuber Melanosporium Vitt- 15 Novembre/ 15 Marzo
- Tartufo Bianchetto – Tuber Borchii Vitt- 10 Gennaio/ 31 Aprile
- Tartufo Nero d’Inverno – Tuber Brunale Vitt- 1Gennaio/ 15 Marzo
- Tartufo Scorzone – Tuber Eastivum Vitt- 1Giugno- 30 Novembre
Il Lagotto Romagnolo
E adesso finalmente veniamo al cane: la razza Lagotto Romagnolo.
Prima l’ho paragonata al tagliatore di diamanti, il motivo risiede nel fatto che essa risulti la sola ad essere ufficialmente riconosciuta come specializzata nella cerca del tartufo.
Senza di questa le superlative note sensoriali dei vari Tuber rimarrebbero avvolte nell’umida oscurità proprio come la brillantezza del gioiello rimarrebbe offuscata dalla dura crosta esterna.
Al pari del tagliatore poi il cane si serve di strumenti specifici e perfetti per lo scopo che, tuttavia, a differenza del primo, non nascono direttamente per la funzione citata ma vengono ereditati e perfezionati a partire da un impiego precedente ed alle zone
ad esso annesse.
Il Lagotto nasce infatti come cane da riporto in acqua specificatamente per la caccia di valle, o in botte, ad acquatici come anatre e folaghe nelle zone paludose di Comacchio, Ravenna e della laguna veneta; tanto che è attualmente classificato nel Gruppo 8 assieme a razze come i vari Spaniel, i Retriever e il Barbet. Solo in seguito alle vaste e profonde opere di bonifica territoriale la sua funzione principale è divenuta la ricerca del tartufo.
Perché però la scelta è ricaduta proprio su questa razza?
Vediamo di capirlo.
La caccia in questione si pratica nei mesi più freddi dell’anno e in essa il ruolo del cane non è quello di scovare il selvatico ma di recuperarlo ad azione compiuta; questo implica
un’attività discontinua, fatta di ingressi e nuotate in acqua gelida e periodi di lunga attesa.
Per evitare il congelamento e rimanere sempre perfettamente idoneo al lavoro il Lagotto è fornito si un mantello del tutto peculiare: pelo a riccio chiuso e molto stretto con sottopelo
estremamente denso; tanto che è praticamente impossibile vederne la pelle. Solo sul muso il riccio si apre e il sottopelo si dirada. La lunghezza contenuta del pelo permette al
riccio di mantenere una certa consistenza di forma che si traduce in elasticità; un manto così soffice e vaporoso è quindi in grado di incamerare una buona quantità di aria che, a contatto con la pelle calda dell’animale, si espande gonfiando il mantello e creando
un’intercapedine con l’ambiente esterno.
A differenza di cani dello stesso gruppo come il Labrador che presentano il cosiddetto pelo di lontra, ossia un manto corto, compatto, liscio e ben oleato su cui l’acqua scivola via il Lagotto si difense dal fluido proprio grazie, io credo, alla sofficità e morbidezza del suo mantello. La forma a riccio e l’estrema densità permettono di distribuire meglio la pressione dell’acqua tra tutto lo strato peloso e così di diminuirne il peso in un punto preciso favorendo il raggiungimento, unitamente all’aria incamerata, di uno stato di complementarietà ed equilibrio tra i due componenti. In questo modo l’acqua viene tenuta lontana dalla pelle e lo scambio di temperatura avviene tra il fluido e l’aria; che continua a
venir riscaldata dall’animale.
A cosa può essere dovuto un mantello di questo tipo rispetto al citato pelo del Labrador?
Io ritengo che sia per via della mole, un Lagotto pesa circa la metà di un Retriever e questo significa che nel riportare un germano reale deve nuotare con approssimativamente il 10% del proprio peso in bocca; un pelo così denso e voluminoso aumenta la superficie su cui il peso del cane poggia all’interno del fluido e, in base al principio di Archimede per cui: un corpo immerso in tutto o in parte in un fluido riceve una spinta dal basso verso l’alto pari al peso del fluido spostato, gli consente di galleggiare meglio.
La cerca delle varietà principali di tartufi si effettua negli stessi rigidi mesi della caccia di valle, in ambiente parimenti umido e con frequenti temporali o nevicate. Pertanto il primo strumento specializzato di cui dispone questa razza è proprio il mantello.
A causa di questo grande potere isolante in estate esso può comportare un pò di fastidio, così i tartufai sono soliti prendere due piccioni con una fava e tosare i propri cani all’inizio della stagione calda. In questo modo si rinfresca il cane e si elimina il pelo sporco della stagione di cerca trascorsa.
Durante la stagione invece è possibile vedere cani con il muso e le zampe tosati così da evitare l’accumulo di fango.
Una menzione la meritano il concetto di cane da riporto e gli uccelli cacciati originariamente. Mentre un cane da caccia classico è dominato da un profondo istinto venatorio che lo spinge a ricercare il selvatico e potenzialmente a provare ad abbatterlo da sé, in quello da riporto la funzione è imprescindibilmente legata ad un padrone a cui rendere quanto trovato. Così un cane del secondo tipo non possiede un istinto tanto forte quanto il primo e ne è meno sopraffatto permettendogli di focalizzarsi sull’animale
abbattuto piuttosto che su uno ancora attivo nelle vicinanze. Nel Lagotto l’istinto venatorio è stato completamente eliminato o atrofizzato e ciò rappresenta uno dei più precisi strumenti di lavoro nell’ambito in questione. Nell’andar per tartufi è del tutto plausibile incontrare lepri, fagiani, cinghiali, caprioli etc… così se si impiegasse un cane con anche un pizzico dell’istinto citato ben presto si risulterebbe per urlarne il nome, rincorrerlo e/o cercarlo a desta e a manca per riprenderne il controllo mentre lui insegue il selvatico; con tanti cari saluti al prezioso tartufo.
Non tutti i selvatici si cacciano con lo stesso cane; così anatre e folaghe sono uccelli che, a causa dell’ambiente e dello stile di vita, non si lasciano fermare; al primo rumore sospetto si alzano in volo e vanno a posarsi in lontananza. Questo impone che un cane utilizzato in un’attività con questi animali debba essere estremamente silenzioso, ubbidiente e che debba “girare stretto” sul cacciatore; ossia muoversi sempre a stretta distanza da esso.
Nella cerca del tartufo un ausiliario che si mantenga silenzioso così da evitare di svelare la posizione e le pasture ad altri tartufai e contemporaneamente rimanga relativamente vicino al padrone permette di trarre i frutti della ricerca in tempo. Sì, perché bisogna
ricordare che il Lagotto è dedito al tartufo in quanto desidera nutrirsene, basti pensare che in alcuni casi certi tartufai spargono qualche piccola goccia di olio aromatizzato al tartufo direttamente sulle mammelle della cagna in lattazione.
In genere i tartufi di settembre si trovano ad una profondità di massimo una spanna mentre quelli di novembre, dicembre e gennaio anche a 50cm; pertanto l’attività di scavo è per il cane romagnolo del tutto preponderante. In questo senso ecco emergere di nuovo un fattore legato all’acqua, al nuoto e al riporto: questa razza possiede zampe, specialmente quelle anteriori, denominate piedi di gatto. Vale a dire tonde e con dita molto arcuate.
Essendo stata l’attività di punta del Lagotto il nuoto con selvaggina in bocca un “piede” simile permette di “afferrare” meglio l’acqua e muoversi più efficacemente in essa; non è tutto però, le zampe sono anche palmate, cioè dotate di membrana interdigitale (i motivi sono i medesimi). Questo tipo di caratteri fenotipici permettono una migliore perforazione del terreno e un’asportazione più massiccia di materiale per singola “raspata”.
Ricapitolando dunque il Lagotto Romagnolo è, giustamente, riconosciuto come unica razza specializzata nella cerca del tartufo poiché dotato di elementi perfetti per questa attività:
- pelo isolante;
- dimensioni contenute;
- stretto rapporto con il padrone;
- raggio di azione limitato;
- istinto venatorio cancellato;
- zampe arcuate e palmate che agevolano lo scavo.
Bisogna però aggiungere che parte di questa specializzazione si deve anche ai luoghi in cui esso veniva utilizzato poiché in questi, prima, durante e in seguito alle bonifiche esistevano le condizioni ottimali allo sviluppo del fungo. Chiaramente avere delle caratteristiche potenziali senza avere il relativo ambito di applicazione risulta in poco di concreto; un pò come quel detto sul pane e sui denti. Nondimeno in nessun’ altra parte d’Italia o del mondo si è sviluppato un simile talento mirato, per cui 2+2=4.
Andare a tartufi non è una spasmodica o chiassosa caccia al tesoro quanto piuttosto una partita di scacchi ben studiata. Il periodo migliore è di notte in cui il buio cela le mosse, il silenzio è maggiore e l’inquinamento olfattivo minore non essendoci auto, esseri umani o altre distrazioni in giro. Non sempre è permesso uscire a notte fonda così il primo mattino diviene il momento d’oro arricchito dalla rugiada e dall’umidità che si alza permettendo una migliore percezione dell’esalazione odorosa (la componente acquosa permette infatti di decifrare i sapori e gli odori anche per noi umani). In entrambi i casi le condizioni di visibilità sono scarse così, tra i tartufai più incalliti, primeggiano i cani con manto bianco o pezzato poiché meglio individuabili rispetto ai toni del marrone.
La cerca del tartufo è un viaggio veramente “detox” dall’ossessione moderna che porta a riscoprire l’uomo quale parte integrante dell’unico vero mondo sensato e concreto, quello in armonia con la natura. Il Lagotto Romagnolo è, in tal senso, il biglietto di partenza.
Francesco Predieri– Autore di Dog Attitude
Foto e grafiche: Monia Bacheikh– responsabile grafica e materiale fotografico di Dog Attitude
Fonti: Da inserire